Un interessante pronuncia della Suprema corte di Cassazione dello scorso 12 novembre 2021 (Cass. civ. Sez. III, Ord., 12-11-2021, n. 33884) sembra mettere un po’ di ordine sulla delicata e controversa questione della legittimità o meno del cosiddetto “canone a scaletta” nelle locazioni commerciali o comunque ad uso diverso dall’abitativo.
La problematica è legata alla possibilità delle parti di concordare un canone di locazione che possa variare nel tempo, prevedendo degli aumenti “progressivi” da applicarsi in corso di contratto.
Il problema interpretativo era prevalentemente legato all’art. 32 della L. 392/78, che vincola le parti ad aggiornare annualmente il canone “su richiesta del locatore” per compensare le eventuali variazioni del potere di acquisto del denaro: “le variazioni in aumento del canone, per i contratti stipulati per durata non superiore a quella di cui all’articolo 27, non possono essere superiori al 75 per cento di quelle, accertate dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati”. In alcune ipotesi (se la durata del contratto è concordata in misura superiore a quella minima prevista dalla legge) l’aggiornamento del canone può raggiungere il 100% della variazione “ISTAT”.
Secondo le interpretazioni giurisprudenziali più restrittive, concordare un canone in misura differenziata nel tempo potrebbe comportare una nullità radicale della pattuizione, per violazione del limite imposto dal citato art. 32 (che a sua volta richiama l’art. 24 della stessa legge 392).
La Cassazione ha oscillato molto tra visioni più restrittive del principio e quelle invece che valorizzano l’autonomia delle parti.
L’ordinanza dello scorso novembre 2021 mette un po’ di ordine nella questione, affermando il seguente chiaro punto di diritto:
“Alla stregua del principio generale della libera determinazione convenzionale del canone locativo per gli immobili destinati ad uso diverso da quello di abitazione, devono ritenersi legittimi, tanto il patto con il quale le parti, all’atto della conclusione del contratto, predeterminano il canone in una misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto; quanto il patto successivo con il quale le parti provvedono consensualmente, nel corso del rapporto, a stabilire una misura del canone diversa da quella originariamente stabilita;
la legittimità di tali patti (iniziali o successivi) dev’essere peraltro esclusa là dove risulti (dal testo del patto o da elementi extratestuali) che le parti abbiano in realtà perseguito surrettiziamente lo scopo di neutralizzare soltanto gli effetti della svalutazione monetaria, eludendo i limiti quantitativi posti dalla L. n. 392 del 1978, art. 32 (nella formulazione originaria ed in quella novellata dalla L. n. 118 del 1985, art. 1, comma 9-sexies), così incorrendo nella sanzione di nullità prevista dal successivo art. 79, comma 1, della stessa Legge“.
Quindi sì al patto che preveda un canone differenziato nel tempo senza particolari limitazioni, avendo però cura di motivare bene la relativa pattuizione, per evitare di incorrere nella “mannaia” di una interpretazione che riconduca alla volontà delle parti di voler solo ovviare agli effetti della svalutazione monetaria. In tal caso infatti, la conseguenza potrebbe essere l’accertamento (giudiziale) della nullità della “scaletta”, l’applicazione del canone iniziale (di solito il più basso) e il conseguente obbligo da parte del locatore di restituire tutte le somme maggiori indebitamente percepite.
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